La scienza
La scienza obbedisce al principio di riduzione che riduce il complesso in semplice al fine di capire un sistema (la cui comprensione è ricondotta alla conoscenza delle sue parti); questo potrebbe indurre ad eliminare ciò che non è quantificabile e misurabile: l’organismo vivente non è soltanto l’insieme dei suoi componenti come lo è una macchina artificiale, l’organizzazione di un sistema vivente produce qualità nuove in rapporto alle parti isolate di cui è composto.
A tal proposito, Morin ricorda che: “il principio di riduzione tende a ridurre il conoscibile a ciò che è misurabile, quantificabile, formalizzabile secondo l’assioma di Galileo: i fenomeni non devono essere descritti che con l’aiuto di quantità misurabili. …Poiché la nostra educazione ci ha insegnato a separare e non a legare, l’insieme delle conoscenze costituisce un puzzle incomprensibile.”
L’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, fraziona i problemi, spezza il complesso in frammenti disgiunti decontestualizzando il globale e le sue parti. La conoscenza specializzata è una forma di astrazione, essa estrae un oggetto dal suo contesto rifiutando legami e interconnessioni con l’ambiente, lo inserisce in un settore concettuale astratto le cui frontiere spezzano arbitrariamente la sistematicità e la multidimensionalità dei fenomeni, impedendo in tal modo di vedere il globale, privilegiando tutto ciò che è calcolabile e formalizzabile a scapito della complessità. Ad esempio, basti pensare allo studio di un tessuto che avviene in provetta, ovvero in condizioni artificiali più facilmente controllabili ma al di fuori del suo contesto organico.
La mia paura è che questa razionalizzazione finisca per negare ciò che non obbedisce ai suoi principi o ricondurrà forzatamente ad essi dopo significative mutilazioni e/o mutazioni. La fisica e la biologia hanno dimostrato per vie differenti che la vita non è riconducibile a una sostanza o a una legge, ma è un fenomeno di auto organizzazione estremamente complesso che il nostro pensiero lineare difficilmente può comprendere.
Per varie ragioni, l’uomo ha la tendenza a separare i “costituenti attivi” dai “costituenti inerti” per la produzione di farmaci (naturali) che producono, oltre alla loro azione terapeutica spesso energica, la comparsa di effetti collaterali o interazioni che non di rado incidono negativamente, sintomaticamente o meno. Gli estratti in toto come le tisane, contenendo migliaia di molecole, hanno effetti curativi più blandi e lenti che difficilmente producono effetti indesiderati, peraltro spesso irrilevanti o gestibili, contenendo sia “costituenti inerti” che “costituenti attivi”: in realtà questa suddivisione è arbitraria, utile solo ai fini di una classificazione didattica; tali “costituenti inerti” potrebbero invece non esserlo perché posseggono un’azione ancora non rilevata o rilevabile. Di ogni pianta usata ne viene smantellato il fitocomplesso, cioè il pool di molecole presenti in toto, per estrarre principi “attivi” a scapito della complessità della pianta (e dell’organismo umano) la cui peculiarità è quella di essere affine alla complessione organica individuale e da questa peraltro mirabilmente tollerata. La storia della medicina ci insegna che dai decotti e dagli infusi usati nelle medicine tradizionali di tutti i popoli si sono ottenuti risultati sorprendenti, risultati sopra i quali non si riesce a dare una interpretazione farmacologica: questo scoraggia non poco gli addetti ai lavori.
Gli estratti secchi titolati sono una importante conquista per l’uomo che dalla natura è riuscito ad estrarre sostanze farmacologicamente attive, ma non c’è niente di tradizionale in un estratto secco di una droga che segue i principi della medicina ortodossa, in cui si usano rimedi già pronti che vanno bene per tutti: fare leva sul sintomo piuttosto che sulle sue ragioni e sul contesto, in sintonia con la presunzione dell’uomo moderno, smantella la soluzione più naturale che è in linea con la nostra complessità.
In contrapposizione al principio della molecola farmacologicamente attiva ci sono dunque le piante medicinali il cui impiego viene considerato a carattere integrale, veicolate da solventi come acqua, olio o alcool; nelle tisane si adopera la parte di pianta utilizzata nella sua interezza, con tutto quello che di “attivo” e “inattivo” contiene.
Estrarre un costituente farmacologicamente attivo significa anche privarlo delle potenzialità degli altri elementi che costituiscono il fitocomplesso. Il principio attivo isolato di una pianta non può sostituire il fitocomplesso e quest’ultimo non può sostituire i principi attivi, non può farlo perché gli elementi costituitivi del fitocomplesso potrebbero modificare l’assorbimento, l’attività, la funzione dei principi attivi.
Nella dottrina di Ippocrate e Galeno, l’eucrasia si riferisce alla equilibrata mescolanza degli Umori nell’organismo; a questa si contrappone la discrasia.
Ripristinando una funzione organica carente, senza cercare una causa immediata e lineare per ogni sintomo, si può raggiungere l’eucrasia. Questo è possibile attraverso l’attività integrativa del fitocomplesso che è ben nota nonché descritta nelle discipline mediche eterodosse; essa rappresenta l’insieme delle attività che esplicano i componenti del fitocomplesso all’interno dell’organismo umano al fine di sostenere meccanismi fisiologici direttamente e/o indirettamente coinvolti nel controllo dell’omeostasi umorale.
Nella mia erboristeria vengono studiate le piante medicinali anche dall’effetto pervasivo, cioè dall’azione dei fitocomplessi atti a produrre nell’organismo effetti particolari e generali.
L’obiettivo di colui che si occupa della salute è il mantenimento o il recupero del benessere psicofisico. Questo diventa possibile attraverso l’interpretazione dei segni del corpo che le medicine hanno sviluppato durante il loro percorso. Si tratta di una decodificazione che si realizza in due dottrine: quelle ortodosse e quelle eterodosse, ed è qui il fulcro del raffronto tra le medicine tradizionali e quella moderna.
Da queste due differenti interpretazioni deriva la disputa accademica per cui, a fronte di una scelta che opti per l’una o l’altra delle due questioni, è necessario dare ad ognuna ragionevole spiegazione. La medicina ortodossa ha un’impostazione di tipo farmacologico che considera i principi attivi e il loro rapporto con le funzioni biologiche, l’attività farmacodinamica e farmacocinetica: delega ai principi attivi la risoluzione della patologia. Quella eterodossa chiama in causa il potenziale “pervasivo” posseduto dal fitocomplesso che non si esplica in un ristretto campo di funzioni biologiche come accade nel primo caso, il motivo è semplice: una tisana può contenere migliaia di molecole, un estratto secco molto meno, un farmaco una soltanto.